Sua Maestà la Pitta Mpigliata

C’era una volta un dolce tipico, e tutt’ora unico c’è. Una meraviglia per gli occhi e per il palato. Una maestà, per banchetti nuziali e tavole preziosamente apparecchiate, il cui luogo d’origine è San Giovanni in Fiore. Non esiste una mezza misura: “o piace o non piace”, ne ho sentito con fermezza dire, e di fatto è così, ma sono certa che la versione originale-tradizionale di casa mia piace, eccome se piace!

Pitta MpigliataLaborioso, paziente e attento rituale, nato per le festività della Pasqua, divenne simbolo di quelle del Natale, e suggello di antichi matrimoni.  Menzionato nei contratti di nozze, come dote della sposa, da offrire in quantità stabilite agli ospiti a fine pranzo nuziale. Una sfoglia sottile, questa l’intraprendenza, per un ricco ripieno di frutta secca: noci e mandorle in egual misura tagliuzzate, impreziosita da miele, uvetta e scorza d’arancia, profumata con liquori da credenza, poi zucchero, intingoli e spezie varie, a ricordare approdi di navi e di Magna Grecia insediamenti.

Questa la storia: la suocera di mia madre, maestra di scuola elementare, era restia a insegnarle la “pizza mpigliata”, perché gelosa della ricetta e del suo confezionamento. Un giorno mia nonna paterna se ne andò anticipatamente senza preavviso per un malore improvviso, e di quella ricetta non se ne seppe più niente. Negli anni a seguire la mia prozia, maestra anche lei, continuò a preparare in segretezza questo dolce tradizionale. Una anno, mia madre ne fece assaggiare una sottobanco a parenti e amici commensali, a fine pranzo del giorno di Natale. Tra un giro e l’altro della spirale, di mano in mano spezzettata, e molto apprezzata, la pitta arrivò anche nel piatto della prozia che, abbassando gli occhiali lanciò un paio di acute occhiate e pronunziò “ma chi ha fatto questa pizza mpigliata?”. Ora, bisogna essere di San Giovanni in Fiore o di Santa Severina per averne impresso il tono e l’intonazione, e benché mia mamma non sia né dell’uno né dell’altro paese, ironicamente lo imita alla perfezione.

Questo il fatto: nonostante fosse chiamata ogni anno dalle due donne per aiutare, era  volontariamente estromessa dalle arcaiche misture e movimenti, da una danza del volgerle le spalle ad ogni segreto ingrediente. Ma lei furba e a insaputa delle perpetue sorelle, una di quelle volte annotò su un foglietto, con andirivieni dalla stanza accanto, ciò che sbirciava, captava e teneva a mente, e così in quel riparo immortalò quei gesti e quei dosaggi occultati. Da quella notte dei tempi, e da mezzo secolo in qua, per il buon augurio del Natale, a occhio, a manate, a dita e bicchieri, mia mamma ammassa, stende, sparge, arrotola, merletta, cuoce e adorna con maestria quella rubata e unica dose della Pitta ‘Mpigliata.

Così, per la vigilia del Natale, del Capodanno e dell’Epifania, finanche per il Ferragosto ben custodita, è il dolce più prezioso di casa mia; e benché ora io ne sia la depositaria, ché anno dopo anno insieme a lei, osservandola, sotto la sua guida faccio: ho facoltà sì “da preparari, ma nun di va potiri mparari, pecchì sulu a figliama, a notte i Natali a puozzu tramandari”.

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