Un carciofo ripieno a metà.

Più e più volte ho provato da piccola a mangiare i carciofi, ma li detestavo. Al contempo però, solo in un modo, e solo il ripieno mi è sempre piaciuto, con l’unico scopo di avere quell’unica e piacevole sensazione, nel sorseggiare acqua dopo un piccolo boccone, e assaporare ogni volta con sorpresa uno spiccato gusto di liquirizia, e diventava il gioco. Delle brattee più esterne, dove si trovano molliche di ripieno sapientemente infilato tra esse per esaltarne il sapore, si arriva sfogliandolo al centro, in cui si cela la farcia più succulenta e filante e per me il carciofo, assiepato in teglia uno con l’altro nella sua forma a rosa, serviva solo come cestino, da contenitore per questa.

Pianta originaria e tipica delle zone del Mediterraneo, è diffusa la sua origine mitologica: Zeus, innamorato della bellissima Cynara, così chiamata per via dei capelli cinerini, ma non corrisposto, la trasformò in un carciofo dai colori verde-viola come i suoi particolari occhi. Il termine carciofo deriva dall’arabo al-karshuf, spina di terra, o harsciof, pianta nota agli arabi sin dal IV secolo a.C.
In Italia, che è il maggiore produttore e consumatore, si è verificata la trasformazione dal cardo, al carciofo selvatico, al carciofo coltivato nelle carciofaie. Ma si deve agli antichi greci la sua introduzione nella zona meridionale: la Sicilia infatti, durante il I secolo a.C., segna il passaggio dalle specie selvatiche alle prime coltivazioni per scopi alimentari e medicamentosi. Dal 1400 si diffonde a Napoli, poi Firenze e Venezia, dal 1500 è in Francia, successivamente in tutto il resto d’Europa. Dal 1800 arriva in America soprattutto in California, dove trova condizioni climatiche talmente favorevoli da rendere il cardo selvatico una pianta infestante.

Da Cynara ad harciof, moltissime sono le varietà e tra quelle italiane troviamo le IGP Tondo di Paestum e Mammola romanesca, la DOP Spinoso di Sardegna, il Presidio Slow Food Carciofo di Perinaldo, come moltissimi sono i nomi, in Calabria è chimato cacciòfula, in Liguria articiocca o in Puglia scacioffa.

Con o senza spine, più o meno polposi, verdi o più sul viola, autunnali o primaverili, inseguo sempre quella allegra sensazione del sorso d’acqua dopo il boccone, ma non li detesto più, anzi. Ho imparato a riconoscerli, apprezzarli e preparli, così come mi è stato insegnato semplici e gustosi, tolgo tutte le brettee però, quelle più spesse e taglio i cuori a metà, ed eccoli, pronti per la farcia: mollica di pane, origano, prezzemolo, un sentore d’aglio, un filo d’olio, una spolverata di parmiggiano. Poi fragranti, appena sfornati, dorati tra il morbido e il croccante, aggiungo la birra nel bicchiere, una Futura del Birrificio Blandino, e uno tira l’altra.

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